Super Nintendo e chip Super FX

Nell'epoca pre-poligoni avere una grafica 3D era straordinario e il Super Nintendo ce l'aveva!

Super Nintendo e chip Super FX

Ciao a tutti, amici nintendari! Qui è il vostro Caribe che vi scrive, oggi con una tazza di caffè fumante sulla scrivania e una voglia matta di fare un tuffo nel passato. Mentre ci godiamo le meraviglie in ray-tracing e i caricamenti istantanei della nostra amata Switch 2 – che ormai ci sta viziando da qualche mese con quella scocca lucida e quei Joy-Con che finalmente non driftano nemmeno se li prendi a martellate – la mia mente è volata indietro. Molto indietro.

Parliamo di un’epoca in cui la parola "poligono" suonava quasi come una bestemmia in chiesa se pronunciata davanti a una console casalinga. Parliamo dei primi anni '90, quando il Super Nintendo dominava il mondo con i suoi sprite coloratissimi e quel Mode 7 che ci faceva girare la testa (letteralmente). Ma c'era un problema: il "cervello" del SNES, la CPU Ricoh 5A22, era un po' come una nonna affettuosa. Bravissima a gestire sprite e colori, ma se le chiedevi di fare calcoli matematici complessi in tempo reale, andava in affanno e ti offriva dei biscotti per cambiare argomento. Ed è qui, cari lettori, che entra in scena la magia nera. È qui che nasce la leggenda del Super FX.

Mettetevi comodi, perché la storia di questo chip non è solo tecnica, è un romanzo di audacia, pirateria informatica legalizzata e genialità britannica. Tutto inizia non a Kyoto, ma a Londra, negli uffici della Argonaut Software. C'era questo ragazzo, Jez San, un prodigio che aveva già capito che il futuro non era piatto. Aveva impressionato Nintendo riuscendo a far girare un motore 3D wireframe sul Game Boy – sì, avete letto bene, sul mattone grigio – con un gioco chiamato X. Hiroshi Yamauchi, il grandissimo e temutissimo patriarca di Nintendo, vide quel miracolo e, con il suo solito pragmatismo glaciale, decise che quella stregoneria doveva arrivare sul Super Famicom. Ma c'era un intoppo: l'hardware del SNES non ce la faceva. Era troppo lento.

Invece di arrendersi, Jez San e il suo team fecero una proposta che suonava folle: "Se la console non ce la fa, costruiamo noi l'hardware che serve e lo ficchiamo direttamente nella cartuccia". Immaginate la scena: dei ragazzi inglesi che spiegano agli ingegneri giapponesi della Nintendo come progettare i circuiti. Nacque così il progetto "MARIO". E no, non è solo il nome dell'idraulico baffuto, ma un acronimo che sta per Mathematical, Argonaut, Rotation & Input/Output. Un tocco di classe, vero?
Il risultato fu il GSU (Graphics Support Unit), commercialmente noto come Super FX. Tecnicamente, era un mostro. Era un processore RISC a 16-bit che girava a 10.5 MHz (e poi a 21 MHz nella sua seconda versione), praticamente più veloce della CPU principale del Super Nintendo stesso! Funzionava come un coprocessore matematico: mentre il SNES si occupava di gestire il gioco, l'audio e i controller, il Super FX si metteva in un angolo a macinare calcoli vettoriali complessi, disegnando poligoni in un frame buffer che poi veniva "sparato" sullo schermo come se fosse una semplice immagine bitmap. In parole povere, era come montare un motore Ferrari su una Fiat Panda: la Panda continuava a guidare, ma andava a 300 all'ora.

Il debutto di questa tecnologia, nel febbraio del 1993, fu uno di quei momenti "dovevi esserci per capire". Star Fox (o Starwing, come lo chiamavamo noi poveri europei confusi dai problemi di copyright con un'azienda tedesca) cambiò tutto.
Ricordo ancora la prima volta che inserii la cartuccia. Non c'erano sprite disegnati a mano che saltellavano. C'erano triangoli. Triangoli che formavano navicelle, edifici, asteroidi. Fox McCloud e la sua squadra volavano in un ambiente tridimensionale vero. Certo, il frame rate oggi ci farebbe sanguinare gli occhi – oscillava tra i 15 e i 20 fotogrammi al secondo se andava bene – e non c'erano texture, solo poligoni piatti ombreggiati. Ma per noi, abituati a scorrere da sinistra a destra, quella era la libertà assoluta. Miyamoto, con la sua solita poesia, decise di dare ai personaggi un aspetto da marionette "Thunderbirds" per giustificare i movimenti un po' rigidi delle bocche durante le comunicazioni radio. Un tocco di genio che ha reso quei poligoni grezzi pieni di anima.

Ma il Super FX non si fermò alle volpi spaziali. Nintendo e Argonaut spinsero l'acceleratore. Arrivò Stunt Race FX, un gioco di corse che applicava la stessa tecnologia alle automobili. Qui le macchine avevano occhi espressivi – uno stile che credo abbia influenzato non poco i ragazzi della Pixar per Cars anni dopo – e sospensioni che reagivano alla fisica in modo incredibilmente realistico per l'epoca. Era lento, a volte scattoso, ma dannatamente divertente. E poi ci fu Vortex, un titolo che trasformava il giocatore in un robot mutaforma. Lì l'ambizione forse superava la giocabilità, ma vedere un mech trasformarsi in jet in tempo reale su un 16-bit era pura fantascienza.

Tuttavia, l'apice artistico, secondo il vostro umile redattore, non fu raggiunto con i poligoni, ma con la manipolazione degli sprite. Sto parlando del capolavoro assoluto che risponde al nome di Super Mario World 2: Yoshi's Island. Qui Nintendo utilizzò la versione potenziata del chip, il Super FX 2. Invece di creare mondi spigolosi in 3D, usarono quella potenza di calcolo extra per ruotare, scalare e deformare enormi sprite in 2D.
Vi ricordate i boss che diventavano giganteschi riempiendo tutto lo schermo? O le piattaforme che si deformavano come gelatina sotto i piedi di Yoshi? O quelle pareti che giravano in tondo facendoci venire il mal di mare? Tutto merito del chip. Yoshi's Island sembrava un disegno a pastelli animato, una fiaba in movimento che non sarebbe stata possibile su un SNES "liscio". È la prova che la potenza bruta serve a poco se non hai artisti visionari capaci di piegarla al loro volere.

E non possiamo dimenticare l'audacia di portare Doom su SNES. Sì, il padre degli sparatutto arrivò sulla console Nintendo grazie al Super FX 2. La cartuccia era rossa, cattiva, e costava un occhio della testa. Il gioco girava in una finestra ridotta, i pixel erano grossi come mattoni e i nemici erano visibili solo frontali (niente rotazioni per loro), ma girava. Potevamo ammazzare demoni su una console Nintendo. Era un miracolo tecnico simile a vedere The Witcher 3 girare sulla prima Switch, ma con molta più gratificazione "hacker".

C'è però una nota malinconica in questa storia, un fantasma che ha aleggiato per decenni: Star Fox 2. Il gioco era pronto. Era finito. Aveva il walker che si trasformava, una mappa strategica in tempo reale, ed era tecnicamente sbalorditivo per il chip Super FX 2. Ma eravamo nel 1995, la PlayStation era già fuori in Giappone e il Nintendo 64 era all'orizzonte. Nintendo, temendo che la grafica 3D "primitiva" del SNES sfigurasse contro le nuove console a 32 e 64 bit, cancellò il progetto all'ultimo secondo. Una pugnalata al cuore. Per anni abbiamo giocato a beta illegali e incomplete, sognando cosa avrebbe potuto essere. Ci sono voluti più di vent'anni perché Nintendo ci facesse finalmente giocare a quel titolo ufficialmente, includendolo nello SNES Classic Mini. Giocarlo oggi è strano: è un artefatto fuori dal tempo, un ponte mancante tra due ere geologiche del videogioco.

L'impatto del Super FX sull'industria è stato incalcolabile. Ha dimostrato che le console non erano scatole chiuse, ma piattaforme espandibili. Ha introdotto il concetto di accelerazione 3D domestica molto prima che le schede video Voodoo diventassero uno standard su PC. Ha insegnato ai giocatori a percepire la profondità, a muoversi lungo l'asse Z, preparando il terreno neurologico per la rivoluzione che Super Mario 64 avrebbe portato di lì a poco.
Senza il coraggio di Jez San e la lungimiranza di Nintendo nel permettere a un team esterno di mettere le mani nelle viscere della loro console, forse la transizione al 3D sarebbe stata più traumatica, più lenta. Il chip Super FX è stato il "ruotino" che ci ha permesso di imparare ad andare in bicicletta nel mondo tridimensionale senza sbucciarci troppo le ginocchia.

Oggi, mentre gioco al nuovo Metroid su Switch 2 con una fedeltà grafica che sembra fotorealismo, sorrido pensando a quel piccolo chip saldato dentro una cartuccia di plastica grigia. Faceva un lavoro sporco, faticoso, scaldava come un tostapane, ma ci ha regalato l'illusione di volare. E in fondo, non è questo che chiediamo ai videogiochi? Di farci credere all'impossibile, un poligono alla volta.

Alla prossima, e ricordate: never give up, trust your instincts!

Starfox

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